Una impiegata conveniva
in giudizio un istituto di credito dolendosi di una mancata promozione. La
lavoratrice asseriva che, pur in presenza di tutti i presupposti, il mancato
avanzamento professionale era da considerarsi ingiusto e frutto di
discriminazione sessuale. L'articolo 15 della legge
300/1970 sanziona con la nullità qualsiasi patto o atto diretto a discriminare
un lavoratore in base all'adesione ad una associazione sindacale. La
legge 903/1977 ha previsto il divieto di discriminazioni fondate sul sesso
relativamente all’accesso al lavoro ed alla formazione professionale, il
diritto alla parità retributiva e a criteri di classificazione comune, il
divieto di discriminazione in materia di attribuzione delle qualifiche e delle
mansioni e di progressione di carriera, la parità in materia di cessazione dal
lavoro, le modalità di partecipazione delle donne al lavoro notturno ed divieto
durante la gravidanza. La legge 903/1977 ha aggiunto all’art. 15 dello Statuto
dei lavoratori il divieto di discriminazione per ragioni politiche, religiose,
di sesso, razza e lingua. La legge 125/1991 ha introdotto la distinzione tra
discriminazione diretta ed indiretta (discriminazione diretta è una
disposizione, criterio, prassi, atto o comportamento che produca un effetto
pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro
sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole in situazione analoga;
discriminazione indiretta si ha quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri mettono i lavoratori
di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio). Il decreto legislativo 216/2003 ha esteso la
sanzione anche alle discriminazioni in base all’handicap, all’età,
all’orientamento sessuale e alle convinzioni personali.La tutela
antidiscriminatoria può avvalersi di azioni ordinarie, l’una individuale e
l’altra collettiva (o pubblica), e di due simmetriche procedure d’urgenza. Nell’azione
individuale è il singolo che si attiva per far valere la lesione di un proprio
diritto. L’azione individuale può condurre alla sanzione di nullità degli atti
o patti discriminatori, all’ordine di rimozione degli effetti e di cessazione
della condotta iniqua ed al risarcimento del danno. La
Corte di Cassazione ha sottolineato che, in base all'art. 40 del Codice delle
pari
opportunità tra uomo e donna, alle direttive europee ed alla
giurisprudenza comunitaria e nazionale, il lavoratore discriminato, che vuole
ottenere il risarcimento del danno, deve fornire prove idonee a far presumere
l’esistenza di atti o comportamenti discriminatori perpetrati dal datore di
lavoro in ragione del sesso dei suoi dipendenti. A fronte di tali elementi
spetta, invece, al datore di lavoro provare l’inesistenza della
discriminazione. Tali prove possono anche essere dati statistici relativi alle
assunzioni, alle retribuzioni, alle progressioni in carriera, ai licenziamenti
di lavoratori e lavoratrici fatti in passato dall’azienda. Gli elementi
necessari per raggiungere la prova della discriminazione devono essere comunque
seri, precisi e concordanti. La Corte di Cassazione, nel caso
affrontato, ha ritenuto che lavoratrice avrebbe lamentato che la promozione le
sarebbe stata negata per una discriminazione individuale subita che si inseriva
in un quadro di discriminazione generale e diffusa in danno del personale
femminile all'interno della azienda. La dipendente, però, non avrebbe offerto
elementi con quelle caratteristiche di precisione, concordanza e di serietà
richieste dall'ordinamento. La Corte di Cassazione ha, quindi, rigettato la
pretesa della lavoratrice.