Un
ascolto che ha superato il 30 per cento di share. Uno spettacolo che ha
commosso il Pubblico. Un sermone sull’economia che ha fatto pensare. Il
successo è dovuto alla solita ricetta di Adriano Celentano: 1 chilo di
simpatia, 2 etti di saggezza improvvisata, un pizzico di demagogia, e tante
splendide canzoni. Il tutto arricchito con le acrobatiche esibizioni di un ottimo
corpo di ballo e la magnifica coreografia dell’arena di Verona. Ma è riuscito
il nostro Adriano a raggiungere il suo intento, a dare il messaggio che
desiderava? La parte più forte è toccata ai due attori iniziali, che hanno
proclamato la contro-crescita economica, ripetendo che l’economia non è la
soluzione ma il problema, e che saremmo tutti più felici se puntassimo alla
bellezza interiore e a quella paesaggistica dell’Italia. Quando poi è toccato a
Celentano tenere in pugno il pubblico, la gente è rimasta col fiato sospeso, ed
ha ricevuto in dono qualche battuta originale, anche se alternata ai suoi
famosi silenzi per ritrovare il filo del pensiero. A volte bastava un grido dal
pubblico e lui si distraeva, e non era facile riprendere la strada intrapresa,
per lui che ha sempre avuto il cervello artistico super-sviluppato e quello del
linguaggio con qualche perdonabile buco: Celentano è fatto
così, e lo si ama per questo, per la sua spontaneità, per la sua
improvvisazione anche se zoppicante, per le sue sparate che dalla bocca di
altri non sarebbero tollerate, mentre dalla sua sono accettate e quasi
aspettate. Ogni tanto dava però l’impressione che non riuscisse ad esternare
quello che veramente voleva, che avrebbe voluto dire molto di più, perché lui
quella gente, il pubblico, lo ama veramente, e desiderava ricambiarne la
devozione con parole puntate dritte verso i cuori, e ce le aveva lì sulla punta
della lingua quelle parole, ma non riusciva a dirle come avrebbe voluto. Un po’
per la sua natura di artista, che si sventaglia verso il pubblico come un
fascio di luce iridata anziché come il raggio coeso di un laser in grado di
incidere in profondità, di scolpire le parole esatte nei cuori. E un po’
perché, riconosciamoglielo, molte delle cose che avrebbe voluto dire
appartenevano all’indicibile, all’indicibile delle emozioni, all’indicibile
dell’amore (non facilmente esternabile senza scivolare in banalità),
all’indicibile della fede (e Celentano vi si riconosce anche se in modalità
spesso fuori dagli schemi). Tuttavia qualche frase azzeccata l’ha pronunciata,
il molleggiato, come quando ha affermato che siamo tutti pezzi di un motore che
da soli non trovano il loro significato, mentre, se fossero messi insieme,
potrebbero mettere in funzione il motore di un mondo nuovo. In effetti è la
frammentazione individualista del sociale la vera causa della crisi economica,
in cui ogni monade si proietta (e si progetta) verso il proprio tornaconto
anziché muoversi nella direzione di un bene comune. Perché per muoversi nella
direzione di un bene comune, devi avere la visione d’insieme, devi saper
guardare le cose dall’alto, devi aver aperto l’occhio dello spirito sulla
realtà che ti circonda. E questo, il nostro Adriano ce lo dice anche con altre
parole, per esempio quando afferma che è «assurdo e ridicolo pensare che il
casino che sta succedendo nel mondo sia dovuto a speculazioni economiche, che
non è altro che una crisi che ha radici molto più profonde. Le sue onde si sono
propagate su tutta la terra, ma l'unico vero epicentro è in ognuno di noi». E
poi aggiunge amaramente: «Finita la serata ognuno di noi tornerà ad essere solo
nella propria casa». Vero. Verissimo. Anche quel pubblico che si è tanto
esaltato per lui, che ha delirato per lui, cosa potrà fare una volta spenti i
riflettori e tolta la corrente alle casse acustiche: avrà voce per farsi udire?
E per far udire cosa, oltre al proprio sdegno? Qual è il progetto? Quale la
visione dell’uomo? Quale la propria fede? Perché se si tratta solo di fede
nelle proprie emozioni, o di esaltazione momentanea di un personaggio sia pur
improvvisatosi come oracolo del tempo presente, allora sì non se ne esce. Se
una volta lasciata alle spalle quell’arena che magicamente li rinchiudeva tutti
come un abbraccio, essi non fanno che tornare ciascuno alle loro vite
parcellizzate, ai loro individualismi, senza formare davvero un corpo unico in
grado di superare le distanze personali, allora saranno sempre schiavi del
“divide et impera” tanto sapientemente pianificato dai grandi dominatori più o
meno occulti. Se quel popolo fresco, pulito, affettuoso, che ripeteva
all’unisono le canzoni di Gianni Morandi e che piangeva per il ricordo di Lucio
Dalla non riesce, una volta asciugate le lacrime, a vivere il passaggio dal
commuoversi al muoversi, allora davvero quel canto di vita si riduce alla
triste nenia di un funerale cui nessuno potrà sottrarsi. Solo se noi, «tutti
insieme in un clan, ci uniremo, cambierà questo mondo».
Stefano Biavaschi stefano.biavaschi@libero.it
(insegnate giornalista scrittore)