Un progetto come “un lago” in cui specchiarsi per
riscoprire potenzialità nascoste, un’opportunità per mamme e bambini con
particolari disagi di affidarsi a qualcuno che li aiutasse a non vedersi più
come brutti anatroccoli. È da questa originale rilettura della famosa fiaba che
ha preso le mosse il Bell’Anatroccolo, progetto interessante e singolare che ha
previsto alcune “azioni di inclusione sociale per donne e minori”. “Il cigno e’
in ognuno di noi... basta non dimenticarselo”, recita la prefazione del dettagliato
resoconto delle attività riportato nell’opuscolo a cura della professoressa
Marilena D’Angiolella e di Raffaele Falco, rispettivamente coordinatrice e
responsabile del progetto. L’obiettivo consisteva nel migliorare le condizioni
individuali e familiari di 10 donne in situazioni di forte disagio familiare e
di 10 minori a rischio di emarginazione sociale, tendenti alla devianza. Un
traguardo ambizioso che è stato raggiunto: fornendo alle donne le conoscenze
informatiche per l’integrazione nella società e nel mondo del lavoro, oltre che
la possibilità di creare relazioni di solidarietà; sviluppando a favore dei
minori con disagi familiari azioni di supporto psicologico e relazionale,
favorendone al contempo l’integrazione sociale mediante alfabetizzazione
informatica. “Il messaggio proposto dal brutto anatroccolo propone un tema
sempre attuale, ovvero la scoperta della propria vera identità e la ricerca del
proprio posto nel mondo”, osserva D’Angiolella. Nel libretto sono raccontate in
prima persona le esperienze tanto degli operatori quanto dei protagonisti del
progetto. “Ho solo 14 anni ma una lunga storia da raccontare…”, comincia così
una delle storie più intense e toccanti incluse nel bellissimo volumetto.
“Avevo 5 anni quando i miei genitori in Romania mi hanno venduto ad una tribù
di Rom venuta in Italia: ero costretta a rubare e a chiedere l’elemosina. Poi,
con l’aiuto di un medico che ho conosciuto, ho potuto denunciare i miei
compratori. Ora sono in una comunità in cui mi trovo bene: prima mi sentivo
brutta e avevo paura che i miei amici di classe mi chiamassero “zingara”, ma
ora so di essere una bella ragazza, proprio perché sono scura di pelle, ho i capelli
neri e un bel sorriso… Sembra una favola, ma è solo la mia vita". Quanto
ai soggetti, essi sono stati individuati con la collaborazione dei
servizi sociali del Comune di Parete, della Cooperativa UOMO - che gestisce la
casa di accoglienza per donne e bambini “Casa di Noemi” - e delle locali scuole
elementari e medie. Le azioni predisposte e attivate
durante il progetto, invece, sono state “funzionali alla pratica del
‘tutoraggio sociale’, che si fonda sulla consapevolezza che in ogni persona,
per quanto grave sia la situazione di disagio e degrado, esistono già le
potenzialità per un riscatto morale e sociale e che il suo sviluppo è favorito
dalla creazione di legami di fiducia e solidarietà con gli altri. Per questo,
l’intervento è stato finalizzato a contrastare l’emarginazione e l’esclusione
attraverso il sostegno di una ‘rete di sicurezza’, che ha offerto alle donne e
ai minori coinvolti la possibilità di uscire dalla solitudine e di sentirsi
accompagnati nel percorso”. Ora l’auspicio è che, entrando nelle case e nelle
scuole, queste testimonianze diffondano il grande valore del ‘community care’ e
della responsabilità intesa come capacità di “rispondere” agli “appelli” dei
nostri simili: “una responsabilità che coinvolge ognuno di noi e che si pone
come presupposto imprescindibile per la costruzione di una società autentica”,
conclude Marilena D’Angiolella.
Riccardo Dell'Aversana