27 gennaio 2012

NELLA FAVOLA DEL BELL’ANATROCCOLO, IL RITORNO ALLA VITA DI DONNE E MINORI A DISAGIO.

 Un progetto come “un lago” in cui specchiarsi per riscoprire potenzialità nascoste, un’opportunità per mamme e bambini con particolari disagi di affidarsi a qualcuno che li aiutasse a non vedersi più come brutti anatroccoli. È da questa originale rilettura della famosa fiaba che ha preso le mosse il Bell’Anatroccolo, progetto interessante e singolare che ha previsto alcune “azioni di inclusione sociale per donne e minori”. “Il cigno e’ in ognuno di noi... basta non dimenticarselo”, recita la prefazione del dettagliato resoconto delle attività riportato nell’opuscolo a cura della professoressa Marilena D’Angiolella e di Raffaele Falco, rispettivamente coordinatrice e responsabile del progetto. L’obiettivo consisteva nel migliorare le condizioni individuali e familiari di 10 donne in situazioni di forte disagio familiare e di 10 minori a rischio di emarginazione sociale, tendenti alla devianza. Un traguardo ambizioso che è stato raggiunto: fornendo alle donne le conoscenze informatiche per l’integrazione nella società e nel mondo del lavoro, oltre che la possibilità di creare relazioni di solidarietà; sviluppando a favore dei minori con disagi familiari azioni di supporto psicologico e relazionale, favorendone al contempo l’integrazione sociale mediante alfabetizzazione informatica. “Il messaggio proposto dal brutto anatroccolo propone un tema sempre attuale, ovvero la scoperta della propria vera identità e la ricerca del proprio posto nel mondo”, osserva D’Angiolella. Nel libretto sono raccontate in prima persona le esperienze tanto degli operatori quanto dei protagonisti del progetto. “Ho solo 14 anni ma una lunga storia da raccontare…”, comincia così una delle storie più intense e toccanti incluse nel bellissimo volumetto. “Avevo 5 anni quando i miei genitori in Romania mi hanno venduto ad una tribù di Rom venuta in Italia: ero costretta a rubare e a chiedere l’elemosina. Poi, con l’aiuto di un medico che ho conosciuto, ho potuto denunciare i miei compratori. Ora sono in una comunità in cui mi trovo bene: prima mi sentivo brutta e avevo paura che i miei amici di classe mi chiamassero “zingara”, ma ora so di essere una bella ragazza, proprio perché sono scura di pelle, ho i capelli neri e un bel sorriso… Sembra una favola, ma è solo la mia vita". Quanto ai soggetti, essi sono stati individuati con la collaborazione dei servizi sociali del Comune di Parete, della Cooperativa UOMO - che gestisce la casa di accoglienza per donne e bambini “Casa di Noemi” - e delle locali scuole elementari e medie.  Le azioni predisposte e attivate durante il progetto, invece, sono state “funzionali alla pratica del ‘tutoraggio sociale’, che si fonda sulla consapevolezza che in ogni persona, per quanto grave sia la situazione di disagio e degrado, esistono già le potenzialità per un riscatto morale e sociale e che il suo sviluppo è favorito dalla creazione di legami di fiducia e solidarietà con gli altri. Per questo, l’intervento è stato finalizzato a contrastare l’emarginazione e l’esclusione attraverso il sostegno di una ‘rete di sicurezza’, che ha offerto alle donne e ai minori coinvolti la possibilità di uscire dalla solitudine e di sentirsi accompagnati nel percorso”. Ora l’auspicio è che, entrando nelle case e nelle scuole, queste testimonianze diffondano il grande valore del ‘community care’ e della responsabilità intesa come capacità di “rispondere” agli “appelli” dei nostri simili: “una responsabilità che coinvolge ognuno di noi e che si pone come presupposto imprescindibile per la costruzione di una società autentica”, conclude Marilena D’Angiolella.


Riccardo Dell'Aversana