Guardia Sanframondi –Tutto il paese in processione. Il sangue vivo richiama. Oltre 200 mila, i turisti che, hanno affollato negli ultimi sette giorni le strade e vicoli del caratteristico comune sannita. Centinaia di giornalisti, fotografi e televisioni di tutto il mondo, arrivati fin qui, per immortalare un fenomeno, una rappresentazione unica, a tratti inquietante, già presente nel XVII secolo. Lo chiamano, il paese dei battenti e dei flagellanti, dove ogni sette anni, nell’ultima decade del mese di agosto si celebrano i “Riti Settennali”, festa dell’Assunta per i cittadini di Guardia Sanframondi, piccolo paese della provincia di Benevento: poco più di seimila anime, quasi tutte impegnate nella manifestazione religiosa-penitenziale, un mix di sacro e profano, una processione-penitenza liberatoria. Da brividi. Una festa che dura sette giorni, con il clou domenicale, quest’anno capitato il 22 agosto, che inizia nella chiesa davanti alla sacra immagine dell’Assunta, al grido “In nome di Maria, fratelli battetevi”. Migliaia i figuranti che, rappresentano per tutte le strade del paese, i misteri dei quattro rioni (Croce, Portella, Piazza e Fontanella), con la chiesa locale partecipante ai riti, in ambito religioso, ma non liturgico.
Scene bibliche, vita dei santi, storia della chiesa e storia recente: uomini donne e bambini, chiamati a dare volto e forme a personaggi, talmente compresi nel ruolo da apparire come statue in ogni momento del faticoso e lungo percorso. Tutto il paese in processione, per un giorno intero, sotto il cocente sole di agosto. Figuranti che portano sul capo una corona di spine e sul petto una fune incrociata, a seguire, penitenti incappucciati, Battenti a sangue circa mille, in saio bianco che si percuotono con ritmo cadenzato, sul petto nudo, fino a farlo sanguinare abbondantemente, con uno strumento di penitenza, un pezzo di sughero da cui fuoriescono circa trentatré spilli. Il popolo la chiama “disciplina”. Tra le fila dei battenti, si muovono gli “Assistenti”, il resto degli abitanti praticamente, che provvedono a disinfettare con purissimo vino bianco (3000 litri) le ferite da cui sgorga sangue vivo, un mix che trasforma l’aria in odore acre e pungente. Riti settennali, una sorta di Ramadan osservato per un giorno, ogni sette anni. Gli oltre mille flagellanti, anch’essi incappucciati, che restano anonimi nel paese, come i battenti- invece usano catene o strumenti di ferro preparati artigianalmente e formati da alcune lamine concatenate l’una all’altra, con cui si percuotono duramente le spalle, stringendo nella mano sinistra un piccolo crocefisso.
Camminano in ginocchio, a ritroso, con lo sguardo rivolto al cielo: recitando litanie lauretane.
“Business e sfrenato esibizionismo, roba da Medio Evo-racconta una signora, che critica duramente l’evento. Ma, la signora proveniente dall’hinterland napoletano, rincara la dose: Sarei curiosa di sapere, quanti di questi che fanno questo sacrificio, frequentano la chiesa ogni domenica e osservano i comandamenti negli altri 364 giorni dell’anno!”. Non tutti la pensano così. Forma di devozione negli anni sempre oggetto di aspre critiche, difficile comunque comprendere l’intima natura psico-religiosa che conduce a un così cruento sacrificio: un fenomeno fatto di fede, tradizione, consuetudini familiari, situazioni umane, forse alla base di ogni colpo di catena o di spugna (spilli). “Tradizione conservata nel tempo, ritenuta un’esagerata mortificazione corporale, un rito impressionante e raccapricciante, in un paese rimasto troppo legato al passato, non più in linea con i tempi”- espressione tratta dall’interpellanza parlamentare, Senato della Repubblica del Presidente Amintore Fanfani, del 30 agosto 1968. Penitenza che fa parte della cultura della vita dei cittadini di Guardia, qualcosa che, forse, niente e nessuno potrà mai cambiare, snaturare o cancellare. Da quello che si respira, tra la gente di Guardia, sarà difficile cambiare le cose, impedendo in futuro il sacrificio: versare “il proprio sangue”, tra storia e leggenda, sofferenza e speranza, dolore e gioia, fede e folclore, disciplina e penitenza. Mai a nulla serviranno screening sociologici, antropologici: la risposta al perché dei riti. “Lo facciamo e lo faremo sempre Gratis et amore Dei, i riti sono nel nostro DNA”- la risposta sincronizzata della gente del Sannio beneventano, terra di streghe, gente forte, laboriosa, per nulla decisa a cancellare la propria storia. “ Questo è un luogo terribile”, la scritta in bella mostra, posta sull’altare di una chiesa locale, che non convince e inquieta molti dei turisti approdati da queste parti. “Qui, la gente viene per vedere lo spettacolo, altro che fede: vuole vedere il sangue, è inutile girarci intorno. Il sangue fa vendere più giornali, aumenta gli ascolti dei telegiornali, delle trasmissioni di cronaca. Altro che finzione, qui il sangue scorre davvero. Lo scriva.. lo scriva, la gente è morbosa, dice rivolto al cronista, appena salito su una delle efficientissime navette messe a disposizione per non paralizzare le viuzze del piccolo centro sannita.
Giuseppe Sangiovanni
Scene bibliche, vita dei santi, storia della chiesa e storia recente: uomini donne e bambini, chiamati a dare volto e forme a personaggi, talmente compresi nel ruolo da apparire come statue in ogni momento del faticoso e lungo percorso. Tutto il paese in processione, per un giorno intero, sotto il cocente sole di agosto. Figuranti che portano sul capo una corona di spine e sul petto una fune incrociata, a seguire, penitenti incappucciati, Battenti a sangue circa mille, in saio bianco che si percuotono con ritmo cadenzato, sul petto nudo, fino a farlo sanguinare abbondantemente, con uno strumento di penitenza, un pezzo di sughero da cui fuoriescono circa trentatré spilli. Il popolo la chiama “disciplina”. Tra le fila dei battenti, si muovono gli “Assistenti”, il resto degli abitanti praticamente, che provvedono a disinfettare con purissimo vino bianco (3000 litri) le ferite da cui sgorga sangue vivo, un mix che trasforma l’aria in odore acre e pungente. Riti settennali, una sorta di Ramadan osservato per un giorno, ogni sette anni. Gli oltre mille flagellanti, anch’essi incappucciati, che restano anonimi nel paese, come i battenti- invece usano catene o strumenti di ferro preparati artigianalmente e formati da alcune lamine concatenate l’una all’altra, con cui si percuotono duramente le spalle, stringendo nella mano sinistra un piccolo crocefisso.
Camminano in ginocchio, a ritroso, con lo sguardo rivolto al cielo: recitando litanie lauretane.
“Business e sfrenato esibizionismo, roba da Medio Evo-racconta una signora, che critica duramente l’evento. Ma, la signora proveniente dall’hinterland napoletano, rincara la dose: Sarei curiosa di sapere, quanti di questi che fanno questo sacrificio, frequentano la chiesa ogni domenica e osservano i comandamenti negli altri 364 giorni dell’anno!”. Non tutti la pensano così. Forma di devozione negli anni sempre oggetto di aspre critiche, difficile comunque comprendere l’intima natura psico-religiosa che conduce a un così cruento sacrificio: un fenomeno fatto di fede, tradizione, consuetudini familiari, situazioni umane, forse alla base di ogni colpo di catena o di spugna (spilli). “Tradizione conservata nel tempo, ritenuta un’esagerata mortificazione corporale, un rito impressionante e raccapricciante, in un paese rimasto troppo legato al passato, non più in linea con i tempi”- espressione tratta dall’interpellanza parlamentare, Senato della Repubblica del Presidente Amintore Fanfani, del 30 agosto 1968. Penitenza che fa parte della cultura della vita dei cittadini di Guardia, qualcosa che, forse, niente e nessuno potrà mai cambiare, snaturare o cancellare. Da quello che si respira, tra la gente di Guardia, sarà difficile cambiare le cose, impedendo in futuro il sacrificio: versare “il proprio sangue”, tra storia e leggenda, sofferenza e speranza, dolore e gioia, fede e folclore, disciplina e penitenza. Mai a nulla serviranno screening sociologici, antropologici: la risposta al perché dei riti. “Lo facciamo e lo faremo sempre Gratis et amore Dei, i riti sono nel nostro DNA”- la risposta sincronizzata della gente del Sannio beneventano, terra di streghe, gente forte, laboriosa, per nulla decisa a cancellare la propria storia. “ Questo è un luogo terribile”, la scritta in bella mostra, posta sull’altare di una chiesa locale, che non convince e inquieta molti dei turisti approdati da queste parti. “Qui, la gente viene per vedere lo spettacolo, altro che fede: vuole vedere il sangue, è inutile girarci intorno. Il sangue fa vendere più giornali, aumenta gli ascolti dei telegiornali, delle trasmissioni di cronaca. Altro che finzione, qui il sangue scorre davvero. Lo scriva.. lo scriva, la gente è morbosa, dice rivolto al cronista, appena salito su una delle efficientissime navette messe a disposizione per non paralizzare le viuzze del piccolo centro sannita.
Giuseppe Sangiovanni