CANCELLO ED ARNONE.Grande serata quella del gruppo di lettura “Letteratitudini”. Un incontro, come sempre, improntato sulla convivialità, all’insegna della vera amicizia e del reciproco piacere di ritrovarsi in un salotto per trascorrere una bella serata discorrendo di argomenti culturali.
Non poteva essere scelto un argomento, una figura letteraria più affascinante, emozionante, ammaliante ed incantevole come quella del D’Annunzio e della sua poetica.
Un grande uomo, un eccentrico amante, innamorato della parola, adoratore della musica e della poesia il D'Annunzio fu parlatore squisito. Tutti quanti scrivono di lui, ne ricordano la voce limpida, armoniosa, metallica, e attestano che la seduzione esercitata da lui sulle folle e sui singoli era riposta soprattutto nella parola.
La sua voce scandita, metallica, e insieme carezzevole dava di per sé una sensazione analoga a quella che suscitano le sue liriche più prestigiose: di trasognamento...
Miracoloso era il suo potere d'adattamento alla persona che, per improvvisa simpatia, eleggeva e a cui voleva piacere: non falsandosi, ma estraendo dalla sua molteplice natura quel che in essa v'era di consono a quella dell'interlocutore; ponendo certo in quella operazione un'arte non minore di quella che nelle sue più venuste pagine: ma arte, non artifizio, non istrionismo. Obbedienza al ritmo scelto per quel dato colloquio, ma ritmo suo; attenzione vitale.
Fu evidentemente per questa sua indole che l'impresa di Fiume, i motti Dannunziani, le apparizioni pubbliche e il modo squillante, acuto e cristallino di arringare le folle rappresentano inconsapevolmente le prove generali degli strumenti propagandistici utilizzati per più di vent'anni dal regime.
Famosissimi i motti del vate, che ci raccontano la sua vita, come ad esempio: Ognora desto - motto che serviva al Poeta da sprone al suo lavoro letterario. Lo usò per i suoi ex libris accompagnato dall'immagine di un gallo che canta ritto su una pila di libri.
Io ho quello che ho donato - Inciso sul frontone all'ingresso del Vittoriale, è questo il più celebre dei motti dannunziani. Alla affermazione apparentemente paradossale, usata dal poeta fino agli ultimi anni della sua vita, è legata l'idea della generosità e della munificenza a cui il Poeta si ispirò sopratutto negli ultimi anni trascorsi al Vittoriale. Racchiuso in un tondo recante la figura di una cornucopia, simbolo dell'abbondanza, o impresso al centro di due cornucopie, il motto si trova impresso sui sigilli, sulla carta da lettere e su tutte le opere di Gabriele d'Annunzio pubblicate dall'Istituto Nazionale e dall'Oleandro. Il Poeta affermò di aver trovato la frase incisa su una pietra di focolare appartenente a un camino del Quattrocento. In realtà è la traduzione di un emistichio del poeta latino Rabirio, contemporaneo di Augusto, citato da Seneca nel VI libro del De beneficiis:"Hoc habeo quadcumque dedi".La frase e' riportata in un trattato seicentesco dell'Abate Giovanni Ferro come motto di un cavaliere spagnolo del Cinquecento.
Piegando lego - Motto impresso sulla carta da lettere e sugli ex libris con l'immagine di un salice piangente che si piega legandosi ad un altro albero. Non è escluso che si "piega" alla volontà di Mussolini che lo vuole lontano dalla vita politica della nazione.
Suis viibus pollens possente di sua propria forza - Una delle frasi predilette dal d'Annunzio che la fece incidere sui sigilli dorati con cui chiudeva le buste e sugli oggetti che usava donare agli amici: gemelli e portasigarette d'argento. E' inscritta in un tondo recante l'immagine di un elefante con la proboscide in alto.
Vivere ardendo e non bruciarsi mai - Parafrasi di un verso di Gaspara Stampa:" Vivere ardendo e non sentire il male".Il motto fu adottato da d'Annunzio anche in guerra durante l'impresa di Fiume.
Resto dentro di me - La frase è legata alla immagine della tartaruga che resta nel suo guscio. D'Annunzio la fece incidere su una placca che inviò a Mussolini ne '35. Il Poeta era solito regalare agli amici piccole tartarughe d'argento che usava come "talismani".
D’Annunzio diceva che il fallimento più grande della vita dell’uomo stava nel non mettere a frutto gli ARDORI GIOVANILI ovvero quel desiderio che ognuno di noi serba nel petto di condurre un’esistenza attiva, viva, operosa, ricca di stimoli intensi, profondi ideali, attività fiorenti.
Egli affermava che solo abbandonandosi appieno alla vita come una foglia sospinta dalle placide o impetuose acque di un fiume l’uomo poteva essere davvero felice. Il vitalismo, l’incoerenza e la passionalità questo contraddistingue l’esistenza di D’Annunzio nei confronti di tutta la massa di poeti che compiange ciò che avrebbe potuto vivere o avrebbe voluto vivere.
In mezzo a questo scenario di vita e passione comunque D’Annunzio nasconde un rapporto molto profondo e complesso con la morte e principalmente scomporrei la visione della morte in più argomenti legati dal medesimo filo conduttore : Amore e Morte
L’antico tema trattato dai poeti latini, da Leopardi, da Gozzano e, in un modo del tutto suo, da D’Annunzio. Amore e Morte per D’Annunzio sono uno l’effetto dell’altro, l’amore è un sentimento talmente intenso viscerale, profondo, impetuoso e lancinante che solo chi non ha paura della morte può vivere nella maniera più profonda. Quanti di noi, di fronte a un vero amore perduto si sentono vittima di un qualcosa di talmente grande, doloroso ed irrimediabile da avvertirlo simile alla morte. Significa che il vero amore esiste soltanto quando siamo disposti a donare noi stessi per il sentimento.
Ma esiste anche il D’annunzio ardito e la morte: d’Annunzio partecipa alla guerra mondiale in maniera eclatante con Il volo su Vienna, la beffa di Buccali e tante altre imprese che lo resero popolare e che diedero sfogo al suo grande desiderio patologico di platea. Negli anni 20 incendia l’animo degli italiani parlando di “vittoria mutilata” e in seguito marciando su fiume con una schiera di legionari pronti a tutto spinti da amore di patria.
Il pensiero di D’Annunzio in merito è che il vero ardito è colui che è disposto anche a donare la vita per perseguire quello in cui crede : MEMENTO AUDERE SEMPER ( Ricordati di osare sempre ) soltanto chi osa ed è disposto a perdere ciò che possiede è in grado di assaporare appieno l’esistenza.
Questo pensiero si riflette non solo nelle imprese di guerra ma soprattutto nella sua vita, nei suo amori complessi ma impetuosi, profondi, passionali, veementi per i quali D’Annunzio era disposto a donare la vita con amore. Nota che al Vittoriale c’è un tabernacolo con il volante d’un ardito morto in una gara di motoscafo, simbolo che per il poeta chi donava la propria vita in un impresa ardua era degno di venerazione.
Il D’Annunzio ed il declino - Negli ultimi anni D’Annunzio dovette assistere alla propria decadenza fisica e morale, costretto a vivere nella “prigione dorata” del Vittoriale nella penombra più completa per occultare alle amanti l’onta della decadenza sul suo volto. Ormai non era più in grado di compiere imprese magnifiche o essere una guida spirituale per il paese ( come se D’Annunzio fosse già morto prima della morte fisica ).
Deluso dal fallimento di fiume si ritira in una villa costruita su misura di uomo eccentrico. Fra le stanze del Vittoriale bisogna rammentare la più significativa che è la stanza del lebbroso dove c’è un letto fatto come una culla e stretto come una bara, simbolo esplicito che la vita e la morte si compenetrano e che una è insita nell’altra come dice Gozzano ( quanti me stesso son morti in me stesso ).
Nella stanza del lebbroso c’è un’effige raffigurante D’Annunzio moribondo fra le braccia di San Francesco poiché, nel raffigurarlo, il Vate si immaginava lui ammalato di peste tra le braccia d’un santo ( allora la peste era considerata come simbolo divino ). Nella stanza del lebbroso inoltre ci sono nel soffitto rappresentate immagini di sante con il volto delle amanti più significative del D’Annunzio in quanto il poeta amava fondere sacro e profano.
La morte del poeta - C’è chi vocifera che “ il volo dell’arcangelo “ ovvero la caduta dalla finestra non sia stata causata dall’amante del vate Luisa Baccara ma che D’Annunzio meditasse un suicidio, c’è chi dice persino che anche la sua morte ha qualcosa di misterioso. C’è da dire che D’Annunzio costruì per lui e per i suoi legionari un altissimo mausoleo dove fu deposta la sua salma eretta verso il cielo in onore del sommo poeta.
Per coronare la nostra serata di “Letteratitudini”, non poteva, ovviamente mancare, la recitazione di una delle poesie più belle di D’Annunzio “La pioggia nel Pineto” tratta da Alcyone.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, Ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
Spiegazione
“La pioggia nel pineto” è una tra le più belle poesie di D’Annunzio. E’ rivolta alla donna amata, Ermione. La scena si svolge in un bosco, nei pressi del litorale toscano, sotto la pioggia estiva. Il poeta passeggia con la sua donna, Ermione e la invita a stare in silenzio per sentire la musica delle gocce che cadono sul fogliame degli alberi. Inebriati dalla pioggia e dalla melodia della natura, il poeta e la sua donna si abbandonano al piacere delle sensazioni con un’adesione così totale che a poco a poco subiscono una metamorfosi fiabesca e si trasformano in creature vegetali.
La poesia è ricca di enjambement e similitudini. Le rime sono libere e sono presenti molte onomatopee.
Matilde Maisto
Non poteva essere scelto un argomento, una figura letteraria più affascinante, emozionante, ammaliante ed incantevole come quella del D’Annunzio e della sua poetica.
Un grande uomo, un eccentrico amante, innamorato della parola, adoratore della musica e della poesia il D'Annunzio fu parlatore squisito. Tutti quanti scrivono di lui, ne ricordano la voce limpida, armoniosa, metallica, e attestano che la seduzione esercitata da lui sulle folle e sui singoli era riposta soprattutto nella parola.
La sua voce scandita, metallica, e insieme carezzevole dava di per sé una sensazione analoga a quella che suscitano le sue liriche più prestigiose: di trasognamento...
Miracoloso era il suo potere d'adattamento alla persona che, per improvvisa simpatia, eleggeva e a cui voleva piacere: non falsandosi, ma estraendo dalla sua molteplice natura quel che in essa v'era di consono a quella dell'interlocutore; ponendo certo in quella operazione un'arte non minore di quella che nelle sue più venuste pagine: ma arte, non artifizio, non istrionismo. Obbedienza al ritmo scelto per quel dato colloquio, ma ritmo suo; attenzione vitale.
Fu evidentemente per questa sua indole che l'impresa di Fiume, i motti Dannunziani, le apparizioni pubbliche e il modo squillante, acuto e cristallino di arringare le folle rappresentano inconsapevolmente le prove generali degli strumenti propagandistici utilizzati per più di vent'anni dal regime.
Famosissimi i motti del vate, che ci raccontano la sua vita, come ad esempio: Ognora desto - motto che serviva al Poeta da sprone al suo lavoro letterario. Lo usò per i suoi ex libris accompagnato dall'immagine di un gallo che canta ritto su una pila di libri.
Io ho quello che ho donato - Inciso sul frontone all'ingresso del Vittoriale, è questo il più celebre dei motti dannunziani. Alla affermazione apparentemente paradossale, usata dal poeta fino agli ultimi anni della sua vita, è legata l'idea della generosità e della munificenza a cui il Poeta si ispirò sopratutto negli ultimi anni trascorsi al Vittoriale. Racchiuso in un tondo recante la figura di una cornucopia, simbolo dell'abbondanza, o impresso al centro di due cornucopie, il motto si trova impresso sui sigilli, sulla carta da lettere e su tutte le opere di Gabriele d'Annunzio pubblicate dall'Istituto Nazionale e dall'Oleandro. Il Poeta affermò di aver trovato la frase incisa su una pietra di focolare appartenente a un camino del Quattrocento. In realtà è la traduzione di un emistichio del poeta latino Rabirio, contemporaneo di Augusto, citato da Seneca nel VI libro del De beneficiis:"Hoc habeo quadcumque dedi".La frase e' riportata in un trattato seicentesco dell'Abate Giovanni Ferro come motto di un cavaliere spagnolo del Cinquecento.
Piegando lego - Motto impresso sulla carta da lettere e sugli ex libris con l'immagine di un salice piangente che si piega legandosi ad un altro albero. Non è escluso che si "piega" alla volontà di Mussolini che lo vuole lontano dalla vita politica della nazione.
Suis viibus pollens possente di sua propria forza - Una delle frasi predilette dal d'Annunzio che la fece incidere sui sigilli dorati con cui chiudeva le buste e sugli oggetti che usava donare agli amici: gemelli e portasigarette d'argento. E' inscritta in un tondo recante l'immagine di un elefante con la proboscide in alto.
Vivere ardendo e non bruciarsi mai - Parafrasi di un verso di Gaspara Stampa:" Vivere ardendo e non sentire il male".Il motto fu adottato da d'Annunzio anche in guerra durante l'impresa di Fiume.
Resto dentro di me - La frase è legata alla immagine della tartaruga che resta nel suo guscio. D'Annunzio la fece incidere su una placca che inviò a Mussolini ne '35. Il Poeta era solito regalare agli amici piccole tartarughe d'argento che usava come "talismani".
D’Annunzio diceva che il fallimento più grande della vita dell’uomo stava nel non mettere a frutto gli ARDORI GIOVANILI ovvero quel desiderio che ognuno di noi serba nel petto di condurre un’esistenza attiva, viva, operosa, ricca di stimoli intensi, profondi ideali, attività fiorenti.
Egli affermava che solo abbandonandosi appieno alla vita come una foglia sospinta dalle placide o impetuose acque di un fiume l’uomo poteva essere davvero felice. Il vitalismo, l’incoerenza e la passionalità questo contraddistingue l’esistenza di D’Annunzio nei confronti di tutta la massa di poeti che compiange ciò che avrebbe potuto vivere o avrebbe voluto vivere.
In mezzo a questo scenario di vita e passione comunque D’Annunzio nasconde un rapporto molto profondo e complesso con la morte e principalmente scomporrei la visione della morte in più argomenti legati dal medesimo filo conduttore : Amore e Morte
L’antico tema trattato dai poeti latini, da Leopardi, da Gozzano e, in un modo del tutto suo, da D’Annunzio. Amore e Morte per D’Annunzio sono uno l’effetto dell’altro, l’amore è un sentimento talmente intenso viscerale, profondo, impetuoso e lancinante che solo chi non ha paura della morte può vivere nella maniera più profonda. Quanti di noi, di fronte a un vero amore perduto si sentono vittima di un qualcosa di talmente grande, doloroso ed irrimediabile da avvertirlo simile alla morte. Significa che il vero amore esiste soltanto quando siamo disposti a donare noi stessi per il sentimento.
Ma esiste anche il D’annunzio ardito e la morte: d’Annunzio partecipa alla guerra mondiale in maniera eclatante con Il volo su Vienna, la beffa di Buccali e tante altre imprese che lo resero popolare e che diedero sfogo al suo grande desiderio patologico di platea. Negli anni 20 incendia l’animo degli italiani parlando di “vittoria mutilata” e in seguito marciando su fiume con una schiera di legionari pronti a tutto spinti da amore di patria.
Il pensiero di D’Annunzio in merito è che il vero ardito è colui che è disposto anche a donare la vita per perseguire quello in cui crede : MEMENTO AUDERE SEMPER ( Ricordati di osare sempre ) soltanto chi osa ed è disposto a perdere ciò che possiede è in grado di assaporare appieno l’esistenza.
Questo pensiero si riflette non solo nelle imprese di guerra ma soprattutto nella sua vita, nei suo amori complessi ma impetuosi, profondi, passionali, veementi per i quali D’Annunzio era disposto a donare la vita con amore. Nota che al Vittoriale c’è un tabernacolo con il volante d’un ardito morto in una gara di motoscafo, simbolo che per il poeta chi donava la propria vita in un impresa ardua era degno di venerazione.
Il D’Annunzio ed il declino - Negli ultimi anni D’Annunzio dovette assistere alla propria decadenza fisica e morale, costretto a vivere nella “prigione dorata” del Vittoriale nella penombra più completa per occultare alle amanti l’onta della decadenza sul suo volto. Ormai non era più in grado di compiere imprese magnifiche o essere una guida spirituale per il paese ( come se D’Annunzio fosse già morto prima della morte fisica ).
Deluso dal fallimento di fiume si ritira in una villa costruita su misura di uomo eccentrico. Fra le stanze del Vittoriale bisogna rammentare la più significativa che è la stanza del lebbroso dove c’è un letto fatto come una culla e stretto come una bara, simbolo esplicito che la vita e la morte si compenetrano e che una è insita nell’altra come dice Gozzano ( quanti me stesso son morti in me stesso ).
Nella stanza del lebbroso c’è un’effige raffigurante D’Annunzio moribondo fra le braccia di San Francesco poiché, nel raffigurarlo, il Vate si immaginava lui ammalato di peste tra le braccia d’un santo ( allora la peste era considerata come simbolo divino ). Nella stanza del lebbroso inoltre ci sono nel soffitto rappresentate immagini di sante con il volto delle amanti più significative del D’Annunzio in quanto il poeta amava fondere sacro e profano.
La morte del poeta - C’è chi vocifera che “ il volo dell’arcangelo “ ovvero la caduta dalla finestra non sia stata causata dall’amante del vate Luisa Baccara ma che D’Annunzio meditasse un suicidio, c’è chi dice persino che anche la sua morte ha qualcosa di misterioso. C’è da dire che D’Annunzio costruì per lui e per i suoi legionari un altissimo mausoleo dove fu deposta la sua salma eretta verso il cielo in onore del sommo poeta.
Per coronare la nostra serata di “Letteratitudini”, non poteva, ovviamente mancare, la recitazione di una delle poesie più belle di D’Annunzio “La pioggia nel Pineto” tratta da Alcyone.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, Ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
Spiegazione
“La pioggia nel pineto” è una tra le più belle poesie di D’Annunzio. E’ rivolta alla donna amata, Ermione. La scena si svolge in un bosco, nei pressi del litorale toscano, sotto la pioggia estiva. Il poeta passeggia con la sua donna, Ermione e la invita a stare in silenzio per sentire la musica delle gocce che cadono sul fogliame degli alberi. Inebriati dalla pioggia e dalla melodia della natura, il poeta e la sua donna si abbandonano al piacere delle sensazioni con un’adesione così totale che a poco a poco subiscono una metamorfosi fiabesca e si trasformano in creature vegetali.
La poesia è ricca di enjambement e similitudini. Le rime sono libere e sono presenti molte onomatopee.
Matilde Maisto