Alife. Percorrendo la ex statale 158 che da Caiazzo conduce al Matese lo spettacolo che accoglie il visitatore è di superba bellezza. Dalle colline che immettono nella pianura si può cogliere lo scenario meraviglioso delle propaggini meridionali dell’aspro e selvoso massiccio del Matese, con la cima del monte Miletto ancora innevata a primavera inoltrata, che svetta fra i colori della natura. Più in basso si stende l’ordinata e fertile campagna di un verde brillante ed unico per la ricchezza delle acque che scendono copiose dalla montagna ad irrigare i campi. Adagiata al centro della pianura sorge Alife, regina della valle da oltre duemila anni. Le prime tracce di presenza umana nel territorio alifano risalgono al Paleolitico medio per poi protrarsi nel Neolitico, nell’ Età del Bronzo e nell’età proto storica, l’età del Ferro (XI sec. a.C.). L’antica popolazione osca ha lasciato tracce della sua presenza nell’area alifana che successivamente fu occupata nel V sec. a.C. dai Sanniti, che in “Alipha” coniarono la loro moneta, il didramma d’argento del IV secolo a.C. Dopo cruente e lunghe lotte, nel 310 a.C. si ha la definitiva conquista romana di Alife che passa sotto il controllo di Roma, ad opera del Console Caio Marcio Rutilio che sconfisse il capo Erennio Ponzio, tenace difensore della sua terra. Ma la conquista romana non ridusse l’indole fiera ed operosa degli alifani La città incorporata nella repubblica di Roma fu “Praefectura” e “Municipium” e fu iscritta alla tribù Teretina, fu attraversata da una diramazione della via Latina e fu circondata da una poderosa cinta muraria in “opus incertum” con nucleo cementizio calcareo dello spessore di due metri e mezzo, intervallata da bastioni circolari e quadrati che offrivano un ulteriore difesa contro gli assalitori, quattro porte urbiche con stipiti in blocchi isodomi in pietra fiancheggiate da bastioni quadrati si aprivano al centro dei rispettivi lati. All’interno delle mura è racchiusa un’area di circa 540 metri per 405, corrispondente a 218.700 mq., pari a 21.87.00 ettari. Ancora oggi si conserva, inalterato, l’antico impianto urbanistico con strade che si incrociano ad angolo retto suddividendo la città in quattro settori. La strada che congiunge Porta Napoli con Porta Roma era detta “decumanus maximus”, mentre quella che congiunge Porta Fiume con Porta Piedimonte era detta “cardo maximus”. Nei quattro settori divisi dai decumani e cardini maggiori e minori, con strade parallele ed ortogonali, che si incrociavano ad angolo retto formando ,quindi, dei rettangoli chiamati “insulae”, sorgevano edifici pubblici e spazi per abitazioni private. Numerosi monumenti e reperti lapidei e architettonici si trovano all’interno ed all’esterno della città, quali: Il Criptoportico a tre bracci con doppia navata; il Mausoleo tradizionalmente attribuito alla ricca e potente famiglia degli Acilii Glabriones, nell’attuale piazza della Liberazione fuori Porta Napoli (è uno fra i più importanti esempi dell’architettura funeraria romana in Campania, esso è esattamente nove volte più piccolo del Pantheon di Roma); l’Anfiteatro, esterno al perimetro urbano, enorme struttura ancora coperta da uno spesso strato di terra; il Foro con “tabernae” nell’area dell’attuale Ufficio Postale; il Teatro rimaneggiato in epoca claudia ed antonina; le terme ad ipocausto; la Chiesa Madonna della Grazia, antico mausoleo romano trasformato in chiesa cristiana (oggetto di attenzione da parte della Soprintendenza archeologica per la sua particolare tipologia architettonica); gli acquedotti e le numerose necropoli nelle località dette “Conca d’Oro” e “Croce di Santa Maria” caratterizzate dalla presenza di tombe a fossa terragna di epoca arcaica (fine del VII - VI secolo a.C.) e a cassa con copertura a spiovente in tufo o in tegole e ad incinerazione risalenti al II — I secolo a.C. Le feste di “A1lifae” furono celebrate e ricordate in un calendario alifano. Il suo territorio fu inserito nella centuriazione di tutta la pianura del Volturno, le sue tracce sono ancora visibili nelle suddivisioni agrarie attuali. L‘Ager Allifanus, celebrato da Cicerone per la sua fertilità, fu disseminato di “villae rusticae”, dove facoltosi e nobili romani venivano a ristorarsi le membra e godersi la serenità di luoghi ameni, lontani dalla confusione di Roma. La campagna che circondava “Allifae” era disseminata di campi coltivati e di orti rigogliosi dei frutti della terra, fra i suoi prodotti tipici erano rinomati il vino e l’olio. Infatti riferisce Silio Italico che il territorio alifano non era ingrato a Bacco (Silio — Lib. II. — XLI), e già da allora, molto probabilmente, le cipolle. Infatti in un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Raviscanina, un certo “Naevoleius Chrestus, ci informa che, ancor vivo, ha già provveduto al suo sepolcro, dove verrà deposta anche sua moglie, Caeparia Archene. Questa, a quanto suggerisce il suo nome, doveva avere a che fare con le cipolle, perché caepa era la cipolla e caeparius il venditore di questo ortaggio”.
( Nicola Mancini, “Allifae” p. 29). La città di “Allifae” conobbe il suo periodo di massimo sviluppo durante il I – II° secolo d.C. per poi seguire la stessa sorte che toccò all’impero romano, un lento ma inesorabile decadimento dovuto a diversi fattori sia naturali (devastanti terremoti e alluvioni), che storici, consistenti nelle continue incursioni in tutta la penisola italiana di popoli invasori come: Unni, Ostrogoti, Visigoti, Ungari, Saraceni, Longobardi ed altri. Alife fu proclamata Diocesi nel V secolo, subì la dominazione longobarda divenendo contea del Ducato di Benevento, coinvolta nelle complesse ed interminabili lotte fra Bisanzio, Impero e Papato passò infine, nell’XI secolo, sotto il dominio normanno della famiglia Quarrel- Drengot, che ebbe in Rainulfo III l’ultimo Conte di Alife, il quale già adolescente affiancò il padre Roberto nell’esercizio del potere tanto da meritare l’appellativo di “puer bonae indolis”, come si evince da un documento relativo all’arcivescovo di Benevento datato 30 agosto 1109. A lui si deve l’edificazione della Cattedrale nel 1132 e la traslazione da Roma dei resti di San Sisto I° papa e martire, da allora, patrono della città.
Rainulfo, il normanno, Signore benevolo della città di Alife, condusse tenace lotta contro Ruggero II d’Altavilla per la supremazia nell’Italia meridionale. Quest’ultimo, dopo aver messo a ferro e fuoco la città nel 1138 vinse la contesa con lo sfortunato cognato a seguito della sua improvvisa quanto inaspettata morte presso Troia nelle Puglie nell’anno 1139. Dopo ulteriori devastazioni portate da calamità naturali come periodici terremoti ed i continui saccheggi ad opera di orde saracene, la popolazione si disperse e la malaria tornò ad infestare quelle terre una volta ricche e fiorenti, si spopolò l’intero paese e il suo territorio, che in epoca romana era rinomato per la ricchezza d’acqua e la fertilità della sua terra. Durante i secoli trascorsi sotto il dominio di varie casate nobiliari quali: i Gaetani, gli Schweisspeunt, i D’Aquino, la Dinastia della Casa di Fiandra, i D’Avella, gli Janvilla, i Marzano, gli Stendardo, gli Origlia, i Diazcarlon, la città di Alife segui le vicende del reame di Napoli, fino all’Unità d’Italia quando entrò a far parte del Regno dopo le guerre risorgimentali. Con l’Unita d’Italia sorse il fenomeno del brigantaggio, che interessò, le zone interne del Massiccio del Matese espandendosi, nella sottostante pianura alifana, anche se in maniera circoscritta, in quanto il terreno pianeggiante non offriva ai briganti soddisfacenti vie di fuga. Nel secolo appena trascorso Alife subì notevoli devastazioni: durante la guerra del 1940/1943 con le distruzioni e i saccheggi operati dalle truppe naziste in ritirata verso la piazzaforte di Montecassino, e i relativi bombardamenti americani del 9 e 13 ottobre 1943 che portarono la morte fra la popolazione inerme e che videro distrutte quasi la metà delle case dell’antichissima città. Infine, sullo scorcio del XX secolo, Alife doveva subire un ulteriore oltraggio. La notte del 14 maggio 1984 mani sacrileghe trafugarono il busto argenteo di S. Sisto I° Papa e Martire — Patrono della città e della Diocesi di Alife, custodito dal XVIII secolo in una Cappella della Cattedrale. L’opera di grande ascendenza devozionale ed eccelso prodotto del Secolo dei Lumi, fatta realizzare con enorme sacrificio dagli alifani di allora, svanì per sempre nel losco mercato che alimenta l’illegale raccolta di oggettistica sacra. Ma anche in quest’ultimo tragico frangente l’orgoglio dei laboriosi alifani non si piegò. Mossi da pietà cristiana l’immagine di un nuovo S. Sisto, anch’esso d’argento, grazie al sacrificio di tutti i cittadini compresi anche i molti emigrati per motivi di lavoro all’estero, fu ricostruita in breve tempo (dopo due anni dal furto sacrilego). Perché la devozione per il Santo, e l’amore delle tradizioni che uniscono queste genti in una corale solidarietà, lega saldamente gli alifani tra loro ed alla loro terra. Il 14 dicembre 2001 la piaga dei furti di opere d’arte si ripetè con il trafugamento, da parte di ignoti, della scultura bronzea raffigurante San Giovannino, opera del sottoscritto, che da quasi un decennio adornava l’omonima piazza posta fuori Porta Napoli. Ma nonostante questi tristi episodi di cronaca che periodicamente affliggono non solo, purtroppo, la nostra terra e le immani distruzioni del passato che hanno caratterizzato le alterne vicende storiche di Alife, da più di duemila anni questa gloriosa città vive e prospera al centro della verde vallata attraversata dalle anse del sinuoso Volturno, quale antica regina della fertile piana.
( Nicola Mancini, “Allifae” p. 29). La città di “Allifae” conobbe il suo periodo di massimo sviluppo durante il I – II° secolo d.C. per poi seguire la stessa sorte che toccò all’impero romano, un lento ma inesorabile decadimento dovuto a diversi fattori sia naturali (devastanti terremoti e alluvioni), che storici, consistenti nelle continue incursioni in tutta la penisola italiana di popoli invasori come: Unni, Ostrogoti, Visigoti, Ungari, Saraceni, Longobardi ed altri. Alife fu proclamata Diocesi nel V secolo, subì la dominazione longobarda divenendo contea del Ducato di Benevento, coinvolta nelle complesse ed interminabili lotte fra Bisanzio, Impero e Papato passò infine, nell’XI secolo, sotto il dominio normanno della famiglia Quarrel- Drengot, che ebbe in Rainulfo III l’ultimo Conte di Alife, il quale già adolescente affiancò il padre Roberto nell’esercizio del potere tanto da meritare l’appellativo di “puer bonae indolis”, come si evince da un documento relativo all’arcivescovo di Benevento datato 30 agosto 1109. A lui si deve l’edificazione della Cattedrale nel 1132 e la traslazione da Roma dei resti di San Sisto I° papa e martire, da allora, patrono della città.
Rainulfo, il normanno, Signore benevolo della città di Alife, condusse tenace lotta contro Ruggero II d’Altavilla per la supremazia nell’Italia meridionale. Quest’ultimo, dopo aver messo a ferro e fuoco la città nel 1138 vinse la contesa con lo sfortunato cognato a seguito della sua improvvisa quanto inaspettata morte presso Troia nelle Puglie nell’anno 1139. Dopo ulteriori devastazioni portate da calamità naturali come periodici terremoti ed i continui saccheggi ad opera di orde saracene, la popolazione si disperse e la malaria tornò ad infestare quelle terre una volta ricche e fiorenti, si spopolò l’intero paese e il suo territorio, che in epoca romana era rinomato per la ricchezza d’acqua e la fertilità della sua terra. Durante i secoli trascorsi sotto il dominio di varie casate nobiliari quali: i Gaetani, gli Schweisspeunt, i D’Aquino, la Dinastia della Casa di Fiandra, i D’Avella, gli Janvilla, i Marzano, gli Stendardo, gli Origlia, i Diazcarlon, la città di Alife segui le vicende del reame di Napoli, fino all’Unità d’Italia quando entrò a far parte del Regno dopo le guerre risorgimentali. Con l’Unita d’Italia sorse il fenomeno del brigantaggio, che interessò, le zone interne del Massiccio del Matese espandendosi, nella sottostante pianura alifana, anche se in maniera circoscritta, in quanto il terreno pianeggiante non offriva ai briganti soddisfacenti vie di fuga. Nel secolo appena trascorso Alife subì notevoli devastazioni: durante la guerra del 1940/1943 con le distruzioni e i saccheggi operati dalle truppe naziste in ritirata verso la piazzaforte di Montecassino, e i relativi bombardamenti americani del 9 e 13 ottobre 1943 che portarono la morte fra la popolazione inerme e che videro distrutte quasi la metà delle case dell’antichissima città. Infine, sullo scorcio del XX secolo, Alife doveva subire un ulteriore oltraggio. La notte del 14 maggio 1984 mani sacrileghe trafugarono il busto argenteo di S. Sisto I° Papa e Martire — Patrono della città e della Diocesi di Alife, custodito dal XVIII secolo in una Cappella della Cattedrale. L’opera di grande ascendenza devozionale ed eccelso prodotto del Secolo dei Lumi, fatta realizzare con enorme sacrificio dagli alifani di allora, svanì per sempre nel losco mercato che alimenta l’illegale raccolta di oggettistica sacra. Ma anche in quest’ultimo tragico frangente l’orgoglio dei laboriosi alifani non si piegò. Mossi da pietà cristiana l’immagine di un nuovo S. Sisto, anch’esso d’argento, grazie al sacrificio di tutti i cittadini compresi anche i molti emigrati per motivi di lavoro all’estero, fu ricostruita in breve tempo (dopo due anni dal furto sacrilego). Perché la devozione per il Santo, e l’amore delle tradizioni che uniscono queste genti in una corale solidarietà, lega saldamente gli alifani tra loro ed alla loro terra. Il 14 dicembre 2001 la piaga dei furti di opere d’arte si ripetè con il trafugamento, da parte di ignoti, della scultura bronzea raffigurante San Giovannino, opera del sottoscritto, che da quasi un decennio adornava l’omonima piazza posta fuori Porta Napoli. Ma nonostante questi tristi episodi di cronaca che periodicamente affliggono non solo, purtroppo, la nostra terra e le immani distruzioni del passato che hanno caratterizzato le alterne vicende storiche di Alife, da più di duemila anni questa gloriosa città vive e prospera al centro della verde vallata attraversata dalle anse del sinuoso Volturno, quale antica regina della fertile piana.
di Gianni Parisi