CANCELLO ED ARNONE - L’incontro mensile dei componenti
del gruppo di lettura locale, meglio conosciuto con il nome di
“Letteratitudini”, si è ritrovato mercoledì 29 Maggio, presso il “salotto
letterario” di Matilde Maisto per parlare del grande Giovanni Boccaccio e del
suo “Decameron”. Gli amici storici: Capozzi Giannetta, Arkin Jafuri, Maisto
Matilde, Manzo Pina, Montella Felicetta, Pennella Concetta, Petteruti Olga, Raimondo
Raffaele, Sciorio Laura e Viola Marinella, sempre in un clima di grande
convivialità ed amicizia si sono ben amalgamati con alcuni partecipanti
dell’ultima ora, che si sono uniti al gruppo. La relatrice di turno Pennella
Concetta, con grande rispetto ed in punta di piedi ha iniziato ad illustrarci
la vita e le opere del poeta,
proiettandomi, come per incanto, sui banchi di scuola della terza B; infatti,
mentre lei parlava, sono stata invasa da un turbinio di ricordi, che mi ha
travolto e resa molto felice. La signora
Pennella diceva: Giovanni Boccaccio,
narratore e poeta italiano, uno dei massimi letterati di tutti i tempi,
anticipatore delle tendenze umanistiche del Quattrocento. Figlio illegittimo di
un mercante fiorentino, Boccaccio fu allevato a Firenze. Nel 1327 si recò a
Napoli con il padre, socio della compagnia dei Bardi, per compiervi gli studi
mercantili e fare pratica bancaria. Qui frequentò gli ambienti mondani,
partecipando alla vita culturale della città, e ben presto abbandonò la
mercatura per dedicarsi alla letteratura. Nel 1334 compose la Caccia di Diana (secondo il
modulo allora in voga della rassegna di gentildonne), e intanto intensificò il
lavoro di scrittore. Prese parte attiva alla stimolante vita della corte
angioina di Napoli e pare abbia avuto una relazione con una figlia illegittima
del re, che si cela forse dietro la Fiammetta immortalata in diverse sue opere. A
Napoli subì il fascino della letteratura cortese e cavalleresca francese, ma si
dedicò anche alla cultura latina e all'erudizione storica, mitologica e
letteraria. Richiamato dal padre a Firenze intorno al 1340, scampò alla
terribile peste cominciata nella primavera del 1348, ebbe vari incarichi
diplomatici dal governo della città e nel 1350 conobbe Francesco Petrarca, da
lui ammirato e ritenuto un vero e proprio maestro. I due scrittori rimasero
amici fino alla morte: Boccaccio incontrò nuovamente Petrarca a Padova nel
1351, a Milano nel 1359 e si recò a Venezia appositamente per fargli visita nel
1363. Per il Comune della sua città fu ambasciatore presso Ludovico di Baviera
nel 1351. Nel 1360 ospitò a Firenze l'amico Leonzio Pilato, insegnante di greco
antico, una lingua allora pochissimo conosciuta in Italia. Grazie a lui poté
leggere l'iliade (vedi Omero) tradotta in latino. Nello stesso anno Innocenzo
VI lo autorizzò al sacerdozio. Nel 1362 tornò a Napoli su invito di un amico
ma, deluso dall'accoglienza ricevuta, si recò subito a Firenze e, per incarico
della città, partì per Avignone come ambasciatore presso papa Urbano V.
All'inizio degli anni Settanta si ritirò nella sua casa di Certaldo, vicino a
Firenze, dove visse appartato, dedicandosi quasi esclusivamente allo studio,
interrotto da qualche breve viaggio (tra il 1370 e il 1371 fu a Napoli). Negli
ultimi anni della sua vita, Boccaccio si dedicò alla meditazione religiosa. Un
incarico per lui molto importante fu quello conferitogli nel 1373 dal comune di
Firenze: si trattava di leggere la Divina Commedia di Dante alla cittadinanza, incarico
che dovette abbandonare nel 374 per il sopraggiungere della malattia che lo
avrebbe portato alla morte l'anno seguente.
Il
Decameron
L'opera
maggiore di Boccaccio è il Decameron (iniziato nel 1349 e portato a termine nel
1351), raccolta di cento novelle inserite in una cornice narrativa comune che
prende le mosse da un tragico fatto storico. Per sfuggire alla peste del 1348,
che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci
amici si rifugia in una villa fuori Firenze. Sette donne e tre uomini
trascorrono dieci giornate (da cui il titolo dell'opera) intrattenendosi
vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno. Un personaggio alla
volta è infatti eletto re della giornata, con il compito di proporre un
argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare. Fanno eccezione a
questo schema obbligato la prima e la nona giornata, in cui l'argomento delle
novelle è libero. I personaggi hanno nomi allusivi: Panfilo è l'amante
fortunato, Lauretta è la gelosa, Filostrato èl'uomo che soffre pene d'amore, e
così via. Gli argomenti sono di carattere diverso: ad esempio, nella seconda
giornata si raccontano avventure a lieto fine, nella quarta si tratta degli
amori infelici, mentre la quinta è dedicata alla felicità che premia gli amanti
dopo che hanno superato particolari difficoltà. Ma i temi non sono solo
sentimentali: nella sesta giornata si ragiona di motti spiritosi, nell'ottava
di scherzi e beffe. In questi racconti si alternano numerosissimi personaggi,
di svariata estrazione sociale (nobili, "borghesi", popolani), laici
e religiosi, figure di tutte le età. È un vero e proprio universo ispirato alla
realtà soprattutto toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi
d'Italia - a Napoli soprattutto - e in paesi lontani), senza limitazioni nè di
carattere morale, nè culturale. Vi sono infatti nobili e mascalzoni, amanti
ingegnosi e uomini poveri di spirito, donne fedeli beffate e spregiudicate
figure femminili, personaggi storici e di invenzione. Così, le condotte degli
eroi sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo
il desiderio sessuale. Alcuni protagonisti, con le loro storie, sono diventati
celebri: basti pensare all'incallito peccatore ser Ciappelletto e alla sua
falsa confessione in punto di morte che lo farà considerare santo presso i
posteri, oppure alle numerose beffe di cui è vittima Calandrino, agli sproloqui
di frate Cipolla che sostituisce alla realtà il suo mondo cialtronesco, oppure
alla nobiltà d'animo di Federigo degli Alberighi. Questa straordinaria varietà
di ambienti, temi e personaggi non implica, tuttavia, la mancanza di una
struttura coerente. Infatti, oltre allo schema della cornice e a quello che
regola l'alternarsi delle voci narranti, le corrispondenze sono sia disseminate
all'interno dell'opera sia organizzate in una progressione di tipo etico. Dalla
prima alla decima giornata si passa cioè dal dominio del vizio al trionfo della
virtù, naturalmente in modo non meccanico, e con eccezioni che hanno il compito
di variare questa successione di stampo morale. Alla base dell'inventiva di
Boccaccio ci sono il gusto per il romanzesco (ma qui, a differenza di altre sue
opere, si tratta di un romanzesco impregnato di realismo), l'attrazione verso
la vitalità della giovinezza, l'attenzione critica che porta a superare le apparenze,
una visione disincantata della vita. Ogni giornata si conclude con una canzone,
squisito esempio della lirica boccaccesca, intonata dai personaggi che ballano.
Il Decameron rappresenta il primo e più grande capolavoro in prosa della
tradizione letteraria italiana antica, e si distingue per la ricchezza e la
varietà degli episodi (che alternano toni solenni e umorismo popolare), per la
duttilità della lingua e la sapiente analisi dell'animo umano. Sul piano
stilistico si tratta di una prosa decisamente elaborata, tanto che il modo di
dire, affermatosi in seguito, "periodare alla certaldese" allude
proprio alla struttura spesso molto articolata della frase, modellata sulla
sintassi latina. Una prosa che però si dimostra particolarmente duttile, visto
che riesce con grande efficacia a rappresentare scene tragiche ed episodi
comici, eventi nobili e beffe plebee. Per questa sua opera Boccaccio attinse a
molteplici fonti: i classici greci e latini, il fabliau francese, la
letteratura popolare compreso il patrimonio delle fiabe tradizionali, le
raccolte di novelle italiane precedenti come il Novellino e le varie traduzioni
contaminate delle Mille e una noffe. Alla base, però, c'è anzitutto l'acuta
osservazione della realtà contemporanea. lì Decameron presenta una nuova idea
dell'uomo, non più indirizzato esclusivamente dalla grazia divina ma inteso
come artefice del proprio destino, un'idea che anticipa la concezione
antropocentrica (l'uomo considerato al centro dell'universo) che sarà elaborata
dagli umanisti del Quattrocento. Anche per questo aspetto ideologico il libro
segna un punto di svolta rispetto alle tradizioni letterarie consolidate nel
Medioevo. L'opera, che ha il sottotitolo
alighieriano di "principe Galeotto", fu scritta nel 1349-1353, all'indomani
cioè della peste del 1348: l'evento luttuoso dà "orrido
cominciamento" all'opera. Il testo fu poi revisionato e ritrascritto. Il
titolo è grecizzante, forgiato probabilmente sul titolo
dell'"Hexameron" di Ambrogius. Le digressioni sulle attività idilliche
e beate della brigata, i commenti vari degli ascoltatori, le intrusioni e le
conclusioni dell'autore, animano e variano lo schema della cornice. La cornice
non ha funzioni solo ornamentali, ma serve a chiudere in un affresco
caratterizzato un ideale di vita e di realtà che i racconti presentano e
rifrangono nei più vari e multiformi aspetti. All'interno delle singole novelle
si riproduce in poliedriche sfaccettature una viva unità, quella della
complessa vita umana la cui salvezza tutta laica è additata da Boccaccio nella
forza della passione e dell'intelligenza. Nei
racconti di Boccaccio sfilano una galleria vasta e multicolore di vicende e
figure, emblemi e simboli di virtù e di vizi. Lo sguardo dello scrittore è ora
distaccato ora ironico, ora appassionato e partecipe, ma sempre senza
compiacimenti. Così gli eventi valorosi di Tito e Gisippo, le passioni erotiche
e travolgenti della moglie di Guglielmo Rossiglione, di Ghismonda di Salerno,
di Lisabetta da Messina; le traversie degli sciocchi come Andreuccio da
Perugia, Calandrino, Ferondo; le trovate argute degli ipocriti e imbroglioni
come frate Cipolla, ser Ciappelletto, Martellino; gli affreschi maliziosi e
ridanciani come il racconto delle monache e della badessa, o la novella di
Masetto da Lamporecchio; le più raffinate qualità dell'arguzia gentile di Cisti
fornaio, l'intelligenza di Melchisedech, l'ingegno e la modestia di Giotto,
l'aristocrazia di Guido Cavalcanti. In questo quadro rientra anche l'osceno e
il licenzioso. Dell'erotismo Boccaccio
rivendica i diritti anche per l'arte argomentando i temi di una consapevole
poetica della natura e del comico nella introduzione alla Quarta Giornata,
ricca di spunti polemici e innovatori. Nella sua opera la realtà prende il
posto del mito e dell'allegoria, mentre il genere novellistico degli ameni
fabliaux e dei devozionali exempla è ribaltato in una fitta e cangiante trama
di realismo comico e tragico, in cui predominano amore, avventura, intrigo,
beffa, odio, riflessione morale. Così ad esempio la novella di Lisetta (IV
giornata), ambientata nella Venezia dei primi del XIV secolo. La storia è
quella di Alberto da Imola che per fottere con una ragazza le fa credere di
essere l'arcangelo Gabriele. Lisetta, "baderla e zuccalvento", si vanta
della faccenda con alcune sue amiche, suscitando ovviamente risa e sberleffi.
Quando i parenti di Lisetta cercano di sorprendere Alberto, questo si salva
buttandosi da una finestra nel Canal Grande e rifugiandosi a casa di un
pover'uomo che però lo fa travestire da "uom selvatico" e lo espone
poi in piazza ai lazzi della gente. I frati giustizieri poi lo portano via e lo
condannano al carcere perpetuo. Quel che importa non è la conclusione, il
ritorno all'ordine, quanto il gusto stesso della narrazione, tra malizia e
dissacrazione. Il racconto è tipicamente una parodia: parodia degli exempla
devozionali e dei racconti religiosi sull'apparizione angelica presso beate e
vergini, parodia dei modi dello stilnovo e degli amori cortesi (Lisetta è
"dolce" sì , ma "dolce di sale" cioè stupida: ma è solo una
tra le tante parodizzazioni e distorcimenti proposti), e dissacrazione anti-
veneziana della più famosa e fastosa sacra rappresentazione che si celebrava al
tempo proprio a Venezia (allora nemica e concorrente di Firenze), la festa
dell'annunciazione detta "delle Marie". Un favolismo in cui vi è posto anche per
sprazzi di horror. Così nel racconto ravennate di Nastagio degli Onesti (V, 8):
"Nastagio degli Onesti, amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze
senza essere amato; vassene pregato da' suoi a Chiassi; quivi vede cacciare a
un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti
suoi e quella donna amata da lui a un desinare, la quale vede questa medesima
giovane sbranere: e temendo di simile avvenimento prende per marito
Nastagio", secondo il sommario di Boccaccio. Leggende di cacce infernali
tra selve spettarli o avelli infuocati correvano da secoli l'europa, anche su
suggestioni orientali e di mitologie nordiche. Erano attribuite a Odino, a Artù
, oppure - in Italia - a Teodorico di Ravenna. Queste fantasie d'oltretomba
assunsero l'aspetto di particolari forme di punizione per peccati e delitti
soprattutto d'amore. Elinando e forse anche Passavanti furono autori di
narrazioni di questo genere. Ma Boccaccio colorò l'allucinante scena della
caccia infernale di elementi sognatamente orrorosi, su suggestioni e allusioni
che oggi etichettiamo come aligheriane (si pensi a "la divina foresta
spessa e viva [...] | tal qual di ramo in ramo si raccoglie | per la pineta in
sul lito di Chiassi" di Alighieri, in: Purgatorio, XXVIII, 2 e versi
successivi. Ma anche ai vari cani famelici presenti in Inferno XIII, 111; e
Inferno XXXIII, 31). Boccaccio, rispetto a Elinando e a Passavanti, inserisce i
cani, che movimentano in maniera selvaggia tutta la scena. Indirettamente tutta
la scena rievoca il mito classico di Atteon sbranato dai cani per volere di
Diana, solo che qui non è più la vendetta di una donna sull'uomo colpevole di
irriverenza amorosa, ma dell'uomo offeso su una donna spregiatrice d'amore
(com'è anche nella novella dello scolaro, in VIII, 7; come sarà poi nel
"Corbaccio"). La caccia infernale non ha senso esclusivo tutto
punitivo, come nella mitologia antica e nella tradizione romanza; né ha valore
di minaccia di fuochi demoniaci come nella letteratura ascetica e degli exempla
fino a Passavanti. In Boccaccio diventa un episodio, in un largo e luminoso
affresco patinato d'oro antico, della società signorile ravennate, evocata con
il linguaggio di amori appassionati e di generose cortesie. L'immagine tremenda
della caccia nella foresta di Chiassi assume una funzione redentrice: permette
alla Traversari di redimersi, diventare da nemica ancella d'amore. E così
giungere alla conclusione 'naturale' del matrimonio, come sempre avviene in
Boccaccio. In questa novella, con un chè di solenne e festoso, grazie all'uso
dei ritmi musicali del settenario e dell'endecasillabo ("e fatte le sue
nozze, con lei più tempo lietamente visse").
Il
"Decameron" è specchio fedele e arguto della civiltà mercantile
borghese, della società comunale italica nel suo pieno sviluppo, ma in cui si
avvertono sintomi di crisi. Una realtà di traffici, di lotta per sopravvivere,
di conquista e violenza, di ingegno industrioso e abile. Boccaccio coglie ombre
e luci di un passato ancora vivo, di un futuro problematico ma anche
fiduciosamente atteso. La struttura del "Decameron" si attua anche
grazie a una prosa policorde e variabile, lavorata a più livelli. Solenne e distesa
in periodi ipotattici. Scattante, secca, dinamica. In altri punti estrosa e
sempre duttilissima nel mimare dialoghi mordenti e vivacissimi. Il "Decameron" ebbe una immediata
diffusione, sia in Italia che in europa. Numerose furono subito le traduzioni e
imitazioni. Un influsso che si ebbe sui novellieri posteriori come Sacchetti,
Masuccio da Salerno, Giraldi Cinzio ecc. Ma anche sui trattatisti come Bembo,
Della Casa, Castiglione, che inserirono i loro dialoghi in una cornice mutuata
dal "Decameron"; e soprattutto sul teatro del XVI secolo, che derivò
trame comiche e romanzesche, e procedimenti retorici. Retori e grammatici del
XVI secolo lodarono l'opera come modello di stile; sospetto e censura vennero
dagli ambienti cattolici e sessuofobi. La critica romanticistica, nel XIX
secolo procedette a rivendicarne il valore umano e la varietà di motivi; in
particolare si ricordi la lettura di *De Sanctis che paragonò la "commedia
umana" di Boccaccio alla "commedia divina" di Alighieri.