09 novembre 2010

“LETTERATITUDINI” INCONTRO DEL 5 NOVEMBRE 2010.


Come sempre l’incontro si è rivelato un successo sia dal punto di vista della convivialità, che per quanto riguarda la cultura ed in particolare la letteratura fine a se stessa.

Due le tematiche affrontate:

- ”fugge via il tempo”;

- Il tema della morte nella poetica di vari autori italiani e stranieri.

Varie ed interessantissimi gli autori ricordati tra cui non poteva certamente mancare Giacomo Leopardi, in merito alla fugacità della vita. In particolare sono stati menzionati “I Canti” (XXXV – Imitazione):

“Lungi dal proprio ramo,

Povera foglia frale,

Dove vai tu? – Dal faggio

Là dov’io nacqui, mi divise il vento.

Esso, tornando, a volo

Dal bosco alla campagna,

Dalla valle mi porta alla montagna.

Seco perpetuamente

Vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.

Vo dove ogni altra cosa,

Dove naturalmente

Va la foglia di rosa,

E la foglia d’alloro”

A questa splendida poesia del Leopardi ha fatto seguito Salvatore Quasimodo, “Ed è subito sera” contenuta nella raccolta “Acque e terre.

Come tutti sappiamo molto bene, si tratta di una poesia brevissima:

“Ognuno sta solo sul cuor della terra

Trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera”

La lexis della poesia è chiara e semplice, ma estremamente efficace nella sua brevità. Il tono emotivo è malinconico ed esprime tutto il pessimismo del poeta sulla desolante condizione dell’uomo, destinato a perire. La grandezza di questi tre versi sta nella sintesi: una visione pessimistica, ma oggettiva. In effetti ognuno sta solo al centro del suo territorio o al centro della sua città, allorchè è colpito dalla illusione della felicità, dal raggio di sole che subito tramonta, e arriva la morte che porta via la vita e cancella ogni cosa. E’ il tema della solitudine insita in ogni uo0mo. Ognuno è solo con se stesso, anche se vicino agli altri. La solitudine si affievolisce, ma non scompare quando l’uomo trova l’amore di una donna e l’amore dei figli. Ma anche nelle migliori condizioni possibili egli è sempre solo: se si ammala e lui a soffrire e se muore è lui a morire. Gli altri possono fare molto, possono lenire le sofferenze ma non debellarla e non possono salvarle dalla malattia o dalla morte. Ogni uomo, dunque, è solo con se stesso, mentre si illude di poter capire la vita e si inganna di afferrare la felicità. Subito arriva la morte che rapina ogni illusione e ogni felicità. Ma, affrontando queste tematiche, come non citare Orazio “Dum loquimur fugerit invidia aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” – “Mentre parliamo il tempo, sarà già fuggito. Cogli l’attimo, fiduciosa il meno possibile nel domani”. Carpe diem, letteralmente “Cogli il giorno”, normalmente tradotta in “Cogli l’attimo”, anche se la traduzione più appropriata sarebbe “Vivi il presente” (non pensando al futuro) è una locuzione tratta dalle Odi del poeta latino Orazio (Odi 1, 11, 8). Viene di norma citata in questa forma abbreviata, anche se sarebbe opportuno completarla con il seguito del verso oraziano: “quam minimum credula postero” (“confidando il meno possibile nel domani”).

Si tratta non solo di una delle più celebri orazioni della latinità; ma anche di una delle filosofie di vita più influenti della storia, nonché di una delle più fraintese, nella quale Orazio fece confluire tutta la potenza lirica della sua poesia.

Significato

Spesso male interpretata e identificata con un gretto opportunismo o con il più gaudente edonismo, la «filosofia» oraziana del carpe diem si fonda sulla razionale considerazione che all’uomo non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo. Solo sul presente l’uomo può intervenire e solo sul presente, quindi, deve concentrarsi il suo agire, che, in ogni sua manifestazione, deve sempre cercare di cogliere le occasioni, le opportunità, le gioie che si presentano oggi, senza alcun condizionamento derivante da ipotetiche speranze o ansiosi timori per il futuro. Si tratta di una «filosofia» che pone in primo piano la libertà dell’uomo nel gestire la propria vita e invita a essere responsabili del proprio tempo, perché, come dice il Poeta stesso nel verso precedente, “Dum loquimur, fugerit invida aetas” (“Mentre parliamo, il tempo invidioso sarà già passato”). Nel binomio s’intrecciano due concetti profondi, la qualità (carpe) e la temporalità (diem) del vivere. A confermare la natura serena del godimento oraziano, il verbo carpere, che denota un gusto leggero, un piacere centellinato e fine, fatto di goduriosa eleganza e sottile diletto catartico. Il giorno invece, il termine diem, sottolinea la limitatezza, la precarietà dell’esistenza, che può essere bruscamente interrotta da qualsiasi accidente e che perciò dev’essere vissuta con l’intensità che la consapevolezza della sublimità del mondo dona. Ma anche guardare al semplice godimento di un piacere, pur se responsabilizzato, è mortificante del profondo senso della locuzione. Orazio volle infondere una serena dignità all’uomo che dia valore alla propria esistenza sfidando l’usura del tempo e il suo status effimero. Lungi quindi dall’essere un crasso e materialista invito al bere, od anche un piacere senza turbamento, carpe diem esprime l’angosciosa imprevedibilità del futuro, la gioia dignitosa della vita e il coraggio della morte; l’espressione di un valore che spesso nelle odi oraziane si confonde con l’ammirata esplorazione lirica del paesaggio, talvolta meraviglioso e sublime, talvolta a tinte cupe e fosche: riflesso perenne di un’esistenza complessa, di un reticolo fittissimo di esperienze ed emozioni che è lecito vivere intensamente prima della morte.

Altri temi sono stati affrontati, tutti bellissimi ed entusiasmanti, ma mi fermo qui con una poesia del prof. Raffaele Raimondo che raccoglie pienamente il senso del Carpe Diem

VIVERE

Ovunque deporre

una briciola d’energia.

Lasciare una goccia di sangue

in ogni tempesta;

al fratello assetato donare

un calice d’acqua.

Lottare per domani

Perché l’oggi non basta

Sentire la pochezza

del fiato

per inseguire il sogno.

Tradire il patto

di un’alleanza nuova;

cadere e rialzarsi,

rialzarsi e cadere

invecchiare a vent’anni

e nella tarda età

risentire

il guizzo della speranza

Tilde Maisto