26 ottobre 2010

LA LIBERTA’ DI ESPRIMERE IL PROPRIO PENSIERO.


Piedimonte Matese. La libertà di esprimere il proprio pensiero in alcuni luoghi la si rispetta poiché è la prima forma di civiltà; in altri, la libertà, è soggetta alle formalità burocratiche e di convenienza. Il pensare indipendente è spesso stato in passato, storia docet, ostacolato dagli uomini di potere che traevano la loro autorità dalla divisione delle masse; l’ignoranza popolare di quei tempi, così come la disinformazione di oggi, assicuravano l’assoluta governabilità, che non può prescindere dalla omologazione del pensiero. Questo accadeva già nelle urbis romane, poi nelle campagne dei Regni d’Italia, e accade oggi nei nostri comuni e nelle altre città: ma si giunge al limite della ragionevolezza dinanzi ad una collettività che sostiene la vacuità mentale, la spersonalizzazione e la negazione di alcune fondanti libertà dell’uomo, poiché il pensare “diverso” non è più una risorsa od una nota di merito ma solo un’idea arrogante. Chi resta eredita dalla famiglia l’appartenenza ad un gruppo politico e sociale, aderisce cioè ad una determinata dimensione etica, acquisisce il parametro morale di giudizio comportamentale del proprio gruppo, costruisce il concetto di una giustizia distributiva contestuale e d’occasione. Chi invece resta, ed è consapevole che il patrimonio è nella propria terra, costruisce un pensiero autonomo, genero delle tradizioni, degli usi e costumi popolani, ma libero da precetti di dubbia onestà culturale, perpetuati nel tempo per giustificare il benessere sociale dei pochi e tramandati nelle camuffate vesti di retaggi popolari. Accade così che le idee innovative, quelle “rivoluzionarie”, che richiedono lo sforzo del dubbio, che costringono al confronto reale, e matrici preziose di cambiamenti sociali, siano prontamente emarginate, e pagano lo scotto di un risentimento collettivo che invoca la difesa di un fantomatico equilibrio indotto di un perverso “pensiero di gruppo”. Comunità costruite sull’adulazione di valori effimeri, testimoni di un effetto Veblen per cui l’ esibire beni costosi riveste un carattere di “esclusività”, giudicato positivamente e che reclama referenza. Succede allora che le persone di coerenza, riluttanti al processo cognitivo semi-conscio che stempera la dissonanza tra pensiero e atto e obnubila i rimorsi, fondamentali all’analisi dell’auto- coscienza, decidano che questo non è il posto per loro, e vanno via. Malgrado la tradizione di “popoli di emigranti”, riservo ancora un profondo rammarico per il vuoto inglorioso che si lascia quando il pensiero cessa di essere libero.

Claudia Orsino