Roberto Perrotti |
Saggio tremante sulla terra del paese
mio
Nell’attimo che seguì il
terremoto, scoprii i palazzi sconvolti del paese mio fissare la strada che
copre il fiume.
A
nulla sarebbero servite corde o piccozze, scale o canotti: io ero caduto in
acqua e seguivo il flusso della corrente con la testa protesa al passato.
Pensai
all’acqua che annusavo di notte, alla puzza di catrame e del cemento esangue.
Immaginai
allora l’acqua raggiungere le soglie delle finestre e chiedere da quell’altezza
ragione di quanto accadde in quegli anni. Pareva decisa a tutto pur di
conoscere il motivo di tanto scempio, determinata a invadere i cortili, a
precipitarsi nelle piazze.
Rividi
i ponti freddati, anni prima, come gettati in mare dall’alto di un aeroplano.
Il
fiume non mi avrebbe più condotto lontano dalla mia terra, meschino, aveva la
testa piegata su una sedia e le mani legate ai piedi come un capretto.
Di che
materia furono i nostri padri quel giorno? Perché oltre ai principi non ci
trasmisero un po’ di coraggio.
All’indomani
di quell’orrore mi scoprii orfano, segnato anch’io come quel fiume cementato.
Eppure
le case del centro, quelle in collina, le cupole delle chiese sopravvissero,
violentate alla vista ma vive tuttavia.
Perché
non difesero le proprie pietre e la propria acqua e le barattarono invece per
un piatto di lenticchie, per un bidone di catrame?
Perché
alla terra tremante del paese mio, separata, recintata da lamiere di alluminio
grigio, amputarono impietosamente i ponti?
Io
attesi per anni, dinanzi a un muro bianco, la restituzione di quelle braccia
tagliate. Ma fu inutile.
Al
lato dei ponti, sul margine del fiume, vivevano artigiani con pietre levigate e
con legni profumati, che attendevano l’onda del fiume muovere la ruota del loro
lavoro e della loro vita. Sono andati via adesso, insieme ai ponti e al fiume.
In
questa terra trasfigurata anche le case in un sol colpo invecchiarono,
inconsolabili, avvertirono lo strappo, il lamento di quel fiume velato e
pietrificato.
Quelle
case sobbalzarono con dignità quando, senza alcun peccato, videro i ponti
spediti al camposanto.
In
loro luogo furono concepiti incomprensibili passaggi, muretti, diavolerie
urbanistiche e al disastro intero non si trovò nome. Proverò io a
nominarlo, sebbene con spavento e in modo provvisorio.
La
terra tremante del paese mio fu sistematicamente depontificata, gli antichi cammini che univano le sponde del
fiume furono minati come da un esercito in fuga.
Abbattuti
con tritolo o con semplici colpi di piccone? Non ci interessa, punto.
Furono
schiacciati come bolle, gettati via come funghi letali, segati nei nervi,
irrigiditi, imbalsamati.
I
primi ponti sciagurati che provarono a sottrarsi furono raggiunti e torturati,
pennellati con cemento colorato, resi irriconoscibili. Ricoperti dalle loro
stesse macerie, mutati in varchi di frontiera.
Altri
si salvarono, per ignavia chissà per fatalità, costretti oggi a vagare solitari
e storditi in mezzo a tanta sciagura, con l’ignobile compito di rappresentare
il Monumento ai Ponti Caduti.
Ponti di universi lunari, sfigurati, surrogati,
surrettizi, ponti presi a prestito, ponti presi a martellate sulla testa.
L’estetica
del disastro si compì così: all’abbattimento dei ponti seguì la
cementificazione del fiume.
Che
vale sapere adesso se sia corretto definirla copertura o tumulazione?
Le
ruspe dopo la depontificazione non
si arresero. Mossero ancora sabbia, cemento e altro materiale d’inferno.
E
l’Opera si concluse in questo modo. Dove scorreva il fiume si costruì una
strada, con paletti, con tombini, con lastre d’acciaio rosse e rumorose, che
attraversò il cuore antico del paese mio, ferendolo in senso verticale.
Una
strada falsa nei dislivelli, ordinaria per nascita, coprì il respiro di una
creatura ritenuta esanime e che proseguì, invece, a vivere e a errare.
Non si
poteva non sapere, siamo tutti dalla parte del torto, io, fra i primi, spia e
accusatore, complice e concusso, mandante e esecutore.
Di
notte percorro quella via, fino alla sorgente, e sotto le suole e il cemento,
sento ansimare l’acqua della terra tremante del paese mio.
Di che
materia furono i nostri padri quel giorno?
Roberto Perrotti