CASERTA. Raffaele Nogaro (nella foto)è, per chi è nato alla fine degli anni Settanta come me ed è cresciuto in Campania, una sorta di figura epica. Un simbolo. Si potrebbe sintetizzare con molta semplicità il suo impegno pastorale. Tutto ciò che di umano è stato fatto a Caserta e dintorni è stato fatto grazie a Nogaro, tutto ciò che è stato fatto di disumano corrotto immondo ha avuto contro Nogaro. Queste mie parole possono sembrare romantiche, apologetiche, e forse lo sono. Possono sembrare persino retoriche. Ma nascono d'istinto. Dall'istinto di chi ha vissuto da vicino ciò che lui è stato, ciò che lui ha fatto in una terra sempre al margine dell'attenzione mediatica, una terra ricca, di una ricchezza che non è mai divenuto sviluppo. Le mie sono parole di parte, parole che non hanno la pretesa dell'obiettività scientifica ma piuttosto un impeto di passione nel riuscire a raccontare Raffaele Nogaro, fino a quattro mesi fa vescovo di Caserta, una delle città e delle provincie più corrotte del paese. Di una corruzione silenziosa, una provincia che per anni ha avuto record mondiali di morti ammazzati ma che nessuno conosceva come invece accadeva a Corleone o Scampia. Il silenzio era una coltre colpevole che impediva di capire, di sapere, di vedere; andava difeso anche a costo di sfidare il massimo sacerdote. Quando nella primavera del 1992 papa Giovanni Paolo II andò in visita a Caserta, un parlamentare locale lo avvicinò e gli disse: «Santità, mandi via questo vescovo, che è un demonio». Giovanni Paolo non si curò di quell'avvertimento e rispose rivolgendosi agli scout e ai ragazzi della diocesi, alle generazioni a cui era affidata la speranza: «Amatelo, ascoltatelo». Giovanni Paolo II aprì un varco nel silenzio perché le sue parole venissero accolte da coloro che potevano ancora capire, cambiare, sognare. Il libro intervista fatto insieme a Orazio La Rocca "Ero straniero e mi avete accolto. Il Vangelo a Caserta" parte dal Friuli Venezia Giulia. Da lontano. La terra di nascita di monsignor Nogaro, Gradisca di Sedigliano.
La prima messa la celebrò nel 1958 proprio in Friuli e mentre credeva che tutta la sua vita si sarebbe svolta lì, nel 1982 fu trasferito a Sessa Aurunca nel Casertano. «Rifiutai immediatamente.», racconta Nogaro nel libro: «Quella nomina vescovile per me era una cosa abnorme, inconcepibile. Monsignor Battisti mi guardò negli occhi, forse perché voleva essere sicuro della mia risposta, e mi disse: "Guarda che questo no te lo porterai nella coscienza per tutta la vita". Quasi una minaccia, benché fatta paternamente». Nogaro non lascerà mai più questa terra. Ci arriverà con la morte nel cuore perché sembrava per lui un esilio e invece quello che gli pesava era altro, era un senso iniziale di profondo isolamento: «Avevo la sensazione di essere solo. Ma mi sbagliavo». Lì già iniziano i primi conflitti con la Democrazia cristiana, forza egemone che voleva usare il vescovo come un raccoglitore di voti. E lui tutto era fuorchè un vescovo arruolabile. Non fu l'unico problema. Nel 1990 Nogaro, ormai beniamino della gente di Sessa Aurunca, dovette lasciare la diocesi anche a seguito di una incredibile vicenda legale visto che il precedente vescovo, che era stato generale dei conventuali francescani, aveva presentato ricorso non volendo mollare la curia. «Tu fai il pastore d'anime, perché l'amministratore lo faccio io», gli aveva detto. Quando arriva a Caserta comincia a parlare di camorra. Fedeli e politici tremano e suoi colleghi sacerdoti gli chiedono: «Non parli di camorra, monsignore. Perché offendere questa terra? Perché offendere questa gente?» Offendere. Chi racconta di certi poteri offende. E Nogaro in questo gioco d'omertà e ambiguità si trova male e inizia con ostinazione una prassi nuova. Una catechesi della legalità. Non si può esser cristiani senza combattere i clan. E così in terra di camorra non basta il solito percorso pastorale: bisogna affiancare un valore aggiunto, un percorso nuovo che guardi negli occhi la realtà peggiore.
Il Vangelo contro i boss nel Casertano di Roberto Saviano
Lo ha fatto fino agli ultimi giorni della sua missione diocesana, arrivando a scandire che «la politica si è indebolita, essa è spinta, non vorrei dire guidata dal potere camorristico. Ciò non vuol dire che il politico è un camorrista, però deve comportarsi secondo le regole che stabiliscono i malviventi». Dice Nogaro: «Purtroppo non si può ignorare il fatto che i camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori in queste zone delle iniziative collettive di ritualità religiose. I camorristi proteggono, a modo loro, un certo ordine stabilito e alla lunga suscitano il timore e il rispetto sia di una popolazione impaurita e sottomessa, sia di una parte delle istituzioni. E - quel che è peggio - per un falso amore di pace la Chiesa tace, quando invece dovrebbe gridare forte i suoi richiami, le sue denunce in difesa di tutti gli oppressi. È un atteggiamento gravissimo. La Chiesa non deve essere autoreferenziale, ma sempre eminentemente al servizio del popolo di Dio». Nogaro viene definito vescovo di frontiera ma in realtà ciò che davvero ha fatto è stato comprendere le potenzialità laddove invece altri vedevano solo disperazione e marginalità. È andato oltre, riuscendo a scorgere la speranza oltre l'orizzonte di desolazione. L'immigrazione nel casertano per Nogaro non è mai stata una piaga ma un'occasione. E ha voluto essere al fianco degli ultimi, come quando un anno esatto fa ha pregato nel funerale senza bare per i sei immigrati assassinati a Castel Volturno, in silenzio accanto all'imam che recitava versetti del corano. «Confesso che a me, in fondo, non interessano tanto la liturgia o le grandi catechesi. Anche la catechesi è qualcosa di pleonastico senon riesco a comunicare la parola viva di Gesù. Penso che la Chiesa sia soprattutto l'espressione dell'amore infinito del Cristo? Io sono innamorato del Cristo che compie stranezze pur di avvicinare i peccatori ».Questo sembra essere da sempre il suo percorso umano, e religioso. Innamorato delle cose che fa, innamorato e curioso di ciò che accade. «La Chiesa dovrebbe amare di più, senza contropartite, senza resoconti. Altrimenti una Chiesa dell'otto per mille, dotata di tanta potenza e ricchezza, che si autoafferma, che si preoccupa di fare bella figura, alla fine diventa una Chiesa che non dice più niente a nessuno, nemmeno ai credenti». Una delle cose che non dimenticherò mai di Nogaro sono le caramelle che ti regala quando finisce l'incontro con lui. Le Rossane. Le caramelle che ti danno le nonne. A lui siamo in molti a dovergli qualcosa e quando di quel qualcosa gli andiamo a parlare, lui ci lascia sempre questo mucchietto di caramelle. Quando mi è accaduto di finire sotto scorta è stato l'unico a voler proteggere la mia famiglia, a darmi coraggio, a difendermi in una città e una provincia pigra, incattivita, sempre pronta ad azzannare tutto ciò che può distinguersi dal compromesso. Quando fu ucciso don Peppe Diana, Nogaro era lì a difenderne la memoria dalle accuse di una stampa locale spesso innervata con il crimine. «Il male può essere sconfitto», dichiara, «deve essere sconfitto, altrimenti dovremmo ammettere che l'inferno è qui tra noi e che non si può fare niente per debellarlo». Il giorno in cui è andato in pensione c'è stata una messa, ma Caserta come ci si aspettava è stata fredda, assente, terra ancora troppo malata per riconoscere chi l'ama veramente. Nogaro non ha badato a chi non c'era ma al contrario a chi c'era. «Vorrei che la mia Chiesa oggi fosse sempre più una Chiesa di frontiera, protesa verso i bisogni dell'uomo, non di vertice». E poi ha regalato un sogno ai suoi fedeli: «Io sono convinto che quanto prima questa città metterà le ali, le ali d'aquila: diventerà una città di cultura, una città d'arte e soprattutto una città di fede». A Nogaro bisogna dar atto di aver cercato davvero di esser l'unico in una provincia difficilissima a poter dare una strada altra al compromesso, a offrire una prospettiva diversa dagli appalti imposti, dai voti comprati in un mercato velenoso, dalle baracche degli immigrati trattati come schiavi, dai sindaci collusi che vendono il futuro dei loro cittadini, dai costruttori senza anima, dai divoratori di montagne delle cave che hanno distrutto il territorio, dagli intombatori di rifiuti che hanno contaminato la vita di un'intera regione. Nogaro è stato il contrario di questo. Per me personalmente è stato ancora di più: quando arriva la disperazione mi ricordo il suo viso nordico, i suoi occhiali anni Settanta, e mi aggrappo alle sue parole: «È molto più bello pensare che la nostra vita dipenda da come trasformiamo il mondo ». Allora capisco nel profondo la forza del suo apostolato, del percorso che lui ha inciso nelle coscienze di tanti che hanno avuto la fortuna di poterlo ascoltare e conoscere. Perché in qualche modo questo prete di frontiera, questo uomo del profondo Nord ora cittadino del Sud peggiore, ha reso quella che viene considerata terra di nessuno una terra di tutti.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency